Cavalli al pascolo: quando il foliage va oltre l’hashtag
Scorrendo i feed di Instagram e TikTok in questi giorni d’autunno, è impossibile non imbattersi in una cascata di immagini mozzafiato: boschi infuocati di rosso, sentieri tappezzati d’oro, panorami montani che sembrano dipinti a olio.
Il #foliage è diventato uno dei trend più potenti del turismo esperienziale, con milioni di visitatori che ogni anno si riversano sulle montagne dell’Appennino centrale – Aquilano compreso – smartphone alla mano, cacciatori di quello scatto perfetto (per loro) da condividere per crogiolarsi di qualche manciata di like.
Ma dietro la bellezza filtrata e i reel virali, si nasconde una domanda che raramente viene posta: cosa stiamo davvero celebrando? E soprattutto, cosa stiamo rischiando di perdere mentre inquadriamo, clicchiamo e condividiamo?
Perché se il foliage è diventato un fenomeno di massa – e questo è positivo almeno nello storytelling per le cosiddette aree interne – è anche vero che rischiamo di ridurre patrimoni millenari a semplici scenografie instagrammabili, senza comprendere la complessità e la fragilità dei sistemi che producono quella bellezza, attraverso un turismo mordi e fuggi che alla fine appiattirà qualsiasi argomento.
Un bosco di faggi centenari non è solo un fondale cromatico: è un ecosistema complesso, plasmato da secoli di interazione tra natura, clima, fauna e presenza umana. E quella presenza umana – con le sue pratiche agricole e pastorali, i suoi animali, le sue razze autoctone – non è un dettaglio folkloristico da marginalizzare nelle stories, ma il motore stesso che ha contribuito a creare e mantenere quei paesaggi che oggi fotografiamo, spesso senza alcuna consapevolezza.
Se vogliamo che anche il trend del foliage non si trasformi in una moda effimera destinata a consumare i territori anziché proteggerli, è necessario alzare lo sguardo oltre lo schermo. Serve un approfondimento che vada oltre l’estetica, che riconosca il valore intrinseco della biodiversità – non solo quella verde, ma anche quella culturale e zootecnica – e che trasformi i visitatori occasionali in custodi consapevoli.
Cavalli al pascolo: quando il foliage va oltre l’hashtag
La Biodiversità non è solo verde
Difficile resistere quando l’autunno accende i boschi di rossi fiammeggianti e ori profondi, trasformando i versanti montani in una tavolozza che toglie il fiato, compiendo un miracolo silenzioso che va oltre la bellezza del paesaggio. Tra quei faggi centenari che si tingono di rame e quegli aceri che brillano come lingotti al sole di ottobre, si muove ancora – seppur raramente – un patrimonio vivente che affonda le radici nella stessa terra che nutre quegli alberi maestosi: le razze autoctone, testimoni silenziose di un’alleanza millenaria tra uomo e montagna.
Quando parliamo di conservazione della biodiversità nelle aree marginali o nelle cosiddette “terre alte”, troppo spesso l’immaginario collettivo si ferma ai paesaggi. Ma la biodiversità vera, quella che rende un territorio vivo e resiliente, è un intreccio inscindibile di elementi naturali e culturali, dove gli animali domestici locali – selezionati nei secoli dalle condizioni ambientali e dalle necessità umane – rappresentano un tassello fondamentale nella manutenzione delle essenze arboree che colorano i nostri autunni.
Le razze che si sono adattate ai pascoli dell’Appennino non sono banalmente “razze a rischio” da salvare per nostalgia del passato. Sono archivi genetici viventi, custodi di un adattamento evolutivo che ha richiesto secoli per affinarsi, plasmato dalle stesse forze che hanno modellato i boschi del foliage: inverni rigidi, pendenze vertiginose, pascoli magri d’alta quota, terreni accidentati.
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L’Evoluzione condivisa: Cavalli e Territorio
Mentre passeggiamo tra i sentieri infiammati d’autunno, vale la pena ricordare che quegli stessi percorsi – oggi meta di turisti in cerca di scatti perfetti per i social – sono stati tracciati e mantenuti per generazioni proprio grazie al lavoro incessante di questi animali e dei loro Custodi.
Le specie cosiddette locali o autoctoni hanno letteralmente plasmato il paesaggio: trasportando legname dai boschi d’alta quota, arando i terreni terrazzati strappati alla montagna, collegando borghi isolati attraverso mulattiere impossibili per qualsiasi mezzo meccanico.
La loro selezione naturale e antropica è avvenuta in parallelo con quella degli ecosistemi montani. Zoccoli duri come il calcare dei Monti della Laga, garretti possenti per affrontare pendenze che farebbero impallidire un trattore moderno, mantelli ispidi capaci di resistere alle bufere che spogliano i faggi a novembre, metabolismi efficienti in grado di valorizzare foraggi poveri. Questi animali non sono semplicemente “adatti” all’ambiente montano: sono parte integrante della sua storia evolutiva.
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La Cultura come Ecosistema
In particolare nelle aree marginali dell’Aquilano, dove lo spopolamento ha svuotato interi borghi e dove i boschi avanzano riconquistando i campi abbandonati – quegli stessi che ora offrono il più bello spettacolo cromatico autunnale – la perdita delle razze autoctone rappresenta un impoverimento culturale prima ancora che genetico.
Ogni razza locale porta con sé un corpus di saperi: tecniche di allevamento, conoscenze veterinarie tradizionali, pratiche di bardatura e tiro funzionali ad un determinato impiego; rituali legati alla transumanza e alle pratiche agro-pastorali. Chi come le anziane donne ancora ricorda come preparare l’impacco di erbe per le contusioni dello stinco; chi come il vecchio maniscalco sa leggere l’usura dello zoccolo per capire i difetti di appiombo su terreno irregolare; chi come il pastore mandriano che conosce ogni pietra della mulattiera verso i pascoli d’alta quota.
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L’Elisir della marginalità
Paradossalmente, è proprio nelle aree marginali – quelle che l’economia moderna considera “svantaggiate” – che si conserva l’elisir della biodiversità autentica.
E proprio lì, tra i castagneti che a ottobre rilasciano i loro ricci tra le foglie dorate; tra i noccioleti che si tingono di giallo intenso; lungo i versanti dove il biancospino e il corniolo offrono pennellate scarlatte, questi armenti continuano a svolgere funzioni insospettabili: mantengono aperti i pascoli impedendo l’avanzata del bosco, tutelano un ecosistema di biodiversità attraverso il pascolo selettivo, facilitano la dispersione di semi, mantenendo praticabili anche quei sentieri che altrimenti sarebbero destinati a scomparire.
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Una Visione integrata per il futuro
Conservare le razze equine autoctone dell’Aquilano non significa trasformare le montagne in musei all’aperto o ricreare artificialmente un passato idealizzato.
“Conservare” significa riconoscere che la straordinaria bellezza del foliage è parte di un sistema complesso, dove elementi naturali e culturali si sostengono reciprocamente.
Significa valorizzare il turismo rurale attraverso esperienze autentiche: trekking con cavalli locali tra i boschi autunnali, recupero delle antiche vie della transumanza, piccole produzioni agricole sostenibili su terreni marginali lavorati ancora con metodi tradizionali.
Significa creare presìdi di allevamento che possano essere economicamente sostenibili proprio perché inseriti in un contesto di valorizzazione territoriale integrata.
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Tra le foglie cadute, sementi per il futuro
Quando camminiamo sui tappeti di foglie che scricchiolano sotto i piedi, in una faggeta dell’Aquilano illuminata dai colori dell’autunno, stiamo calpestando secoli di storia condivisa. Ogni albero monumentale ha visto generazioni di mandrie passare sui sentieri, ogni radura è stata mantenuta aperta dal pascolo, ogni sentiero porta l’impronta di quel bestiame che ha battuto quella terra per decenni.
Perdere le razze equine autoctone significherebbe spezzare un filo narrativo che lega la bellezza naturale del paesaggio alla sua dimensione culturale e storica. Significherebbe privare le aree marginali di uno strumento – antico ma ancora validissimo – per mantenerle vive, presidiate, curate.
L’elisir della conservazione non si trova in provette di laboratorio o in banche genetiche refrigerate. Si trova nel calore del fiato di una cavalla locale che bruca tra le felci dorate di ottobre, nei puledri che imparano ad arrampicarsi sui versanti seguendo le madri, nelle mani callose di chi ancora sa leggere il territorio attraverso gli occhi dei suoi animali.
Il foliage non è solo uno spettacolo per i sensi: è un manifesto vivente di come biodiversità naturale e culturale siano indissolubilmente legate. E tra quelle cromie che ogni anno ci ricordano la bellezza dei cicli naturali, dovremmo scorgere anche la sagoma di un animale al pascolo “autoctono” – memoria vivente, custode del territorio, ponte tra passato e futuro.
Perché conservare la biodiversità significa preservare non solo ciò che è bello da vedere, ma anche – e soprattutto – ciò che continua a vivere, a lavorare, a raccontare per le generazioni future.
Annalisa Parisi – Centro Studi per la Biodiversità PASSIONECAITPR
