La “costa” di maggio e il sincretismo culturale de Ju Calenne di Tornimparte
Il primo giorno di maggio è caratterizzato, in numerose tradizioni del nord Europa, ma anche d’Italia, dai riti del Calendimaggio o “cantar maggio”. Questa tradizione assume a Tornimparte un significato unico nel suo genere, trattandosi di una vera e propria commistione di fattori: il clima, la geografia boschiva, la storia (dai riti italici e romani a quelli longobardi), e infine l’economia, che qui non è soltanto agro-pastorale, ma storicamente legata all’attività dei tagliaboschi e delle carbonaie.
La premessa
Il mese di maggio non è per tutti il mese “della rosa”: per un certo mondo rurale antico e di montagna rappresentava un mese lungo e difficile, in cui stavano per esaurirsi le scorte invernali, ma non arrivavano ancora i nuovi prodotti freschi dalla terra.
Non parliamo di un tempo lontanissimo: ero molto piccola, ma ricordo bene di quando mia nonna tornava dalla spesa al mercato minore di Piazza Duomo, lamentandosi di aver trovato poco e niente nei sacchi delle contadine, e brontolava qualcosa sulla “costa di maggio”. Non si trova niente, diceva.
Due sole generazioni sono passate, eppure oggi fatichiamo a ricordarci di quando la vita era regolata dalle stagioni, e si viveva in base ai cicli di produzione “naturale”. Con la perdita di questo legame a favore di un’economia di serra, non solo vengono meno i sapori e gli odori dei prodotti, ma ci si allontana progressivamente dai ritmi biologici e dalla consonanza con la Natura.
La “costa” di maggio e il sincretismo culturale de Ju Calenne di Tornimparte
Calendimaggio nelle zone dal clima mite
In tanti luoghi di tutto il mondo il primo maggio (le Calende, di cui abbiamo già parlato per il mese di marzo) rappresentava il passaggio vero e proprio dall’inverno alla primavera: un vero e proprio trionfo, grazie ai primi raccolti dell’orto e alle prime carni tenere. Il calendario contadino lo considerava il vero spartiacque tra la brutta e la bella stagione.
Il sostrato italico e l’epoca romana legavano questo stesso giorno alle celebrazioni di Maja e di Flora, per propiziare la fertilità della terra e l’abbondanza del raccolto.
In tutto l’Abruzzo ci sono le feste di maggio e ovunque il simbolo del risveglio della natura era l’albero, con la sua forza imponente, fusto e radici, verticale e orizzontale, cielo e terra, umano e divino.
Nei luoghi dal clima più mite, si trattava di un albero in fiore: non a caso in tante feste di calendimaggio si recitavano cantate di carattere idillico–amoroso, in cui allegre brigate di giovani, detti maggiaioli, andavano di casa in casa recando il maggio, ossia un ramo fiorito, in omaggio alla sopraggiunta primavera, ma anche come pegno agli amori nascenti tra giovani.
Si eleggevano regine e reginette, si spargevano fiori, e con il passare del tempo l’albero – così spiega Frazer nel suo intramontabile Ramo d’oro – viene sostituito da un coloratissimo palo della cuccagna, intorno al quale intrecciare danze e nastri.
Un vero tripudio, insomma.
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Ma nelle zone montane…
In montagna l’arrivo del caldo si sposta in avanti perfino di un mese. Guarda caso, è notizia del 22 aprile appena trascorso che una bella grandinata ha imbiancato Cesaproba.
Nei nostri paesi montani la primavera non è mai arrivata con il calendario, perciò a maggio non si dava fondo alle provviste da consumare in allegria, per dimostrare “la virtù” della massaia, capace di utilizzare fino all’ultima granaglia senza buttare via niente, mescolandola con i prodotti appena nati dall’orto.
Da noi, in montagna, a maggio bisognava ancora tenere duro, stipare ancora, perché non si sapeva come sarebbero andate le cose.
E non solo gli agricoltori, ma anche gli allevatori vivevano questo mese come un momento duro e rischioso, perché il bestiame, costretto per tutto l’inverno nelle stalle, rischiava di essere affamato prima del rinverdire dei pascoli.

Qui, il ramo fiorito, che altrove veniva recato porta a porta come simbolo di festosità amorosa primaverile, diventa un ramo di faggio da esporre sul cancello della chiesa, in modo che tutti potessero vederlo recandosi a messa: un gesto propiziatorio, affinché “finalmente le mucche, abituate a spuntare i rami alti del faggio, potessero uscire dalle stalle e riprendere la via della montagna insieme alle greggi – racconta Domenico Fusari – era il rito del faggio fiorito, strettamente connesso con quello delle calende di maggio”.
La “costa” di maggio e il sincretismo culturale de Ju Calenne di Tornimparte
Ecco perché la costa di maggio
Ora si comprende perché i vecchi, fino a due generazioni fa, parlavano della costa di maggio: intendevano la salita (costa è sinonimo di salita ripida) che andava ancora scalata. Era l’ultima fatica dell’inverno, la più dura, perché le forze e la capacità di sopportazione umana erano agli sgoccioli, e perché… l’ultima ‘a scorticà è la coda.
A Tornimparte, spiega ancora Domenico Fusari, temevano questo mese così tanto da non volerlo neanche nominare, lo chiamavano “quiju appresso a Abbrile” (quello dopo aprile). Innominabile, per le grandi ristrettezze che portava.
Ma a quel momento difficile gli uomini reagivano attraverso una prova di forza collettiva, trasportando insieme, sulle spalle, un albero enorme, il più alto, il più bello e il più dritto, accuratamente scelto in precedenza. Una volta issato nel posto più importante del paese, esso assumeva il valore simbolico della forza e della resistenza.

Strettamente correlata a questo (e al rito del faggio fiorito) era poi la festa del santo patrono di Villagrande, S. Panfilo, il 28 Aprile, e “in questo giorno la comunità agro-pastorale sceglieva i pastori per accudire le bestie al pascolo, cioè vaccari, cavallari e pecorai e si effettuava la benedizione delle semente sotto lo sguardo del Santo esposto sul sagrato della chiesa” (ibid.). Due riti, due miti, entrambi strettamente collegati al terzo, quello de Ju Calenne.
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Ju Calenne
Ju Calenne è appunto il pioppo più bello del bosco che nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio viene tagliato e innalzato in paese, con un preciso rituale e un complesso gioco di funi.
Un rito che è descritto per esempio qui o qui, ma anche in alcuni contributi rilevanti (che cito in biblio/sitografia), perciò non parleremo della dinamica della festa, approfondiremo invece qualche aspetto che dimostri come questo rito sia una vera e propria “sintesi” di tanti aspetti legati al territorio e di come, proprio per questo, sia un rito assolutamente unico nel suo genere.

La “costa” di maggio e il sincretismo culturale de Ju Calenne di Tornimparte
Tra boschi e carbonaie
Tornimparte è “un oceano di verde intenso, predominato dal faggio fino a 1700 metri di quota, mentre più in basso troviamo l’acero, il carpine, il cerro, il tasso, il nocciolo, l’ornello, la quercia, fino ai filari di salici e pioppi, che disegnano tragitti geometrici lungo le valli dei ruscelli” spiega ancora Domenico Fusari.
Le ceppaie del bosco si rigeneravano, ringiovanivano le radici e, dopo circa 30 anni, i carbonai avevano di nuovo a disposizione legna da ardere o da carbonizzare, mentre gli allevatori avevano fronde abbondanti per l’alimentazione degli animali.
“Fare carbone – spiega inoltre Vincenzo Gianforte – era un’attività economica che, insieme alla pastorizia e all’agricoltura, ha permesso la sopravvivenza della popolazione in terre aride e severe. Si trattava di tagliare i boschi e trasformarli in carbone, con una tecnica tramandata fin dalla notte dei tempi”.
La figura del carbonaio/taglialegna è dunque una figura storica, profondamente radicata nel passato di questo territorio.
La “costa” di maggio e il sincretismo culturale de Ju Calenne di Tornimparte
Gli alberi dei Longobardi
Non c’è da stupirsi, perciò, se alcuni aspetti della cultura dei Longobardi (la cui presenza in questi luoghi è dimostrata, tra le altre cose, dai termini gastaldi, gastaldati, da toponimi come Fara e da cognomi come Massari) si siano integrati perfettamente con questi aspetti già presenti sul territorio.
Nella cultura longobarda l’albero era infatti un costante punto di riferimento, tanto che le assemblee avvenivano intorno ad un albero, nello spazio determinato dall’ombra della chioma, che era considerato sacro.

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La cristianizzazione del rito pagano
Con l’avvento del cristianesimo, i riti italici, considerati pagani e contrari alla morale vigente, vengono sempre “cristianizzati” (lo abbiamo visto più volte). E così maggio divenne il mese dedicato a Maria, invece che a Maia: in questo modo la Chiesa eliminava i culti pagani, difficilissimi da sradicare, sovrapponendovi quelli sacri istituzionali. Le “infiorate” dei maggiaioli e delle reginette vennero totalmente devolute a Maria sin dall’XI secolo.
La notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, in cui la tradizione pagana esaltava la natura con vari rituali, viene cristianizzata, e diventa la Notte di Santa Valpurga, monaca inglese (710-778) e santa che ha ereditato, in questo modo, le funzioni della Grande Madre.
Ma nel nostro territorio montanaro, dove già mancava completamente l’aspetto della cantata d’amore, e dove al suo posto vigeva l’antico rito energico e virile gestito dai boscaioli, la cristianizzazione fu molto più semplice: “arrivati alla chiesa, lo sguardo della statua del santo patrono, esposta sul sagrato per l’occasione, sembra osservare e controllare che tutte le delicate operazioni di innalzamento della pianta avvengano in modo sicuro”, spiega ancora il Fusari.
Fu la sola presenza del Santo a cristianizzare il rito, che restava sempre uguale a se stesso.

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La politicizzazione del rito cristiano
Nei primi decenni del Novecento il primo maggio divenne la festa dei lavoratori. E questo fatto, nelle zone d’Italia in cui si celebravano le cantate e gli aspetti legati al corteggiamento, indusse molti gruppi di maggiaioli a politicizzare i testi cantati, trasformandoli in canti di protesta. Ecco perché il fascismo proibì il Calendimaggio.
Ma tutto ciò non riguarda Ju Calenne, che mai fu toccato da aspetti amorosi o politici, restando un rito legato, come abbiamo cercato di dimostrare, alla tradizione endemica di un’economia agro-pastorale e boschiva. Il pioppo resiste imperturbabile.
L’unica proibizione (solo temporanea) che il rustico rito nostrano dovette subire fu quella contenuta negli Statuti quattrocenteschi della città di L’Aquila, in cui si fa espresso divieto di alzare calenne, per tutelare il diritto di proprietà privata degli alberi, poiché in quella fatidica notte si poteva andare a spiantare l’albero di chicchessia.
La “costa” di maggio e il sincretismo culturale de Ju Calenne di Tornimparte
Un carattere endemico ancora vivo
Subito dopo il terremoto del 2009 chiesi agli studenti del Liceo Bafile di lasciare su una bacheca un post-it anonimo, in cui scrivevano perché mai si dovesse restare nelle nostre terre dopo una simile apocalisse culturale, come direbbe De Martino.
E un post-it diceva testualmente: “Resto perché so’ di Tornimparte”.
Ecco, Ju Calenne di Tornimparte non è solo un pioppo, è una rievocazione storica della resistenza degli antenati, è il rifiuto della deculturazione di un folklore che simboleggia la connessione profonda tra natura e il territorio, anche se tutto intorno dovesse crollare.
Questo rito, insomma, non solo sintetizza secoli di storia, ma testimonia il carattere di un popolo vigoroso, che tutt’oggi mantiene ancora vivo, seppure mutato nel suo significato, il legame tra luoghi e antiche attività di sostentamento.
Luisa Nardecchia – Centro Studi per la Biodiversità
BIBLIO/SITOGRAFIA
J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton Compton, 1992
V. Gianforte, G, Carnicelli, Ju calenne. L’albero del maggio a Tornimparte, One Group, 2013
D. Fusari, “Ju calenne”, l’albero del maggio di Tornimparte (Aq)
Intervista a Vincenzo Gianforte: “Ju Calenne è una notte magica“
Marco Maccaroni, Le tradizioni di maggio in Abruzzo
Francesca Lippi, Ju calenne. L’albero del maggio a Tornimparte (AQ)
Enrico M. Rosati, Tornimparte, la magia del Calenne rivissuta con Vincenzo Gianforte
V. Battista, Tornimparte e il culto dell’albero di maggio
Antonio Mezzanotte, Le Coste di Maggio nella tradizione popolare di Rosciano (PE)
Ju Calenne: Tornimparte ritrova il suo rito
Le origini della festa del Primo Maggio
Micaela Balice, I riti di rinnovamento: Beltane
A.Rubei, Analisi sulla presenza longobarda in Abruzzo nei secoli VI-VIII
Michele Santoro, Intorno al Calendimaggio, il rito, il dramma, il canto
Giancarlo Pierannunzi, Le virtù teramane, storia, miti e leggende di un piatto simbolo
Maggio romano: tra feste pagane e scampagnate “cristiane”