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Biodiversità nelle aree marginali: il vero volto della multifunzionalità agricola

by ANNALISA PARISI

Nelle aree marginali “tutelare la biodiversità” non è uno slogan per una campagna pubblicitaria. È il rumore degli arbusti che resistono al vento; è il passo lento di una cavalla da tiro sul brecciolino, il belato discontinuo di una piccola razza ovina che resiste dove i numeri non tornano più da decenni.

Dentro questo paesaggio, la parola “multifunzionalità” rischia spesso di suonare come un tecnicismo da bando. In realtà, se torniamo al senso originario che l’Europa le ha dato, parla esattamente di questo: di aziende agricole che non producono solo latte o foraggio, ma paesaggi vivi, servizi ecosistemici, memoria genetica, coesione sociale. (Parlamento Europeo)

La multifunzionalità vista dall’Europa

Nel percorso di riforma della PAC, la Commissione e il Parlamento europeo hanno messo nero su bianco che l’agricoltura europea ha un ruolo “multifunzionale”: oltre alle produzioni di mercato, genera beni pubblici come la tutela della biodiversità, la gestione del territorio, la qualità dell’acqua e del suolo, il presidio delle aree interne. (Parlamento Europeo)

Questo significa che, per il diritto europeo, una stalla di vacche autoctone in alta collina o un piccolo allevamento estensivo di cavalli pesanti in montagna non sono solo “imprese agricole” che devono stare sul mercato: sono nodi di una rete di funzioni che vanno ben oltre il bilancio aziendale.
Ogni volta che un’azienda mantiene al pascolo una razza locale — che sia un cavallo, un asino autoctono o una pecora rustica — sta producendo paesaggio, contenendo l’avanzata del bosco, mantenendo aperti i corridoi ecologici, custodendo alleli che altrove si sono già persi.

Il quadro italiano: molto più di agriturismo

In Italia, questo cambio di sguardo entra nell’ordinamento con il Decreto Legislativo 18 maggio 2001, n. 228, che modifica la definizione di imprenditore agricolo e dell’articolo 2135 del Codice Civile. (Gazzetta Ufficiale)

Non si parla più solo di coltivazione del fondo e allevamento, ma vengono riconosciute come attività connesse – quindi parte integrante dell’azienda agricola – anche:

  • le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale,
  • le attività di ricezione e ospitalità (agriturismo),
  • tutta quella serie di funzioni che tengono insieme ambiente, cultura, paesaggio. (Rete Rurale)

In parallelo, la Legge 194/2015 sulla biodiversità di interesse agricolo e alimentare introduce un altro tassello fondamentale: definisce le “risorse genetiche locali”, istituisce la Rete nazionale della biodiversità agraria e riconosce il ruolo degli agricoltori e allevatori custodi nel preservare il materiale genetico a rischio di estinzione. (Gazzetta Ufficiale)

Tradotto dal linguaggio legislativo: un’azienda agricola che alleva una razza autoctona minacciata di abbandono non è solo “un allevamento come gli altri”. È un presidio riconosciuto di interesse pubblico, parte di una strategia nazionale di conservazione.

Un armento di cavalli autoctoni che si abbevera nei pressi di un vecchio fontanile

L’azienda custode come presidio di biodiversità

Se mettiamo insieme questi due piani – multifunzionalità della PAC e normativa italiana su biodiversità e imprese agricole – il quadro diventa molto chiaro.

Pensiamo a una piccola azienda di montagna che alleva:

  • una razza bovina o ovina locale adattata ai pascoli poveri,
  • un ceppo di cavallo da tiro selezionato per lavorare in pendenza,
  • qualche asino autoctono che fa da “collante” tra lavoro, turismo lento e didattica.

Quell’azienda:

  • produce alimenti (carne, latte, formaggi, trasformati),
  • mantiene aperto il paesaggio e riduce il rischio idrogeologico con il pascolo estensivo,
  • conserva risorse genetiche iscritte o iscrivibili alla Rete nazionale,
  • offre, spesso in modo informale, attività didattiche, visite, esperienze per scuole, famiglie, turisti.

Tutte queste funzioni, dal punto di vista giuridico e politico, rientrano pienamente nella nozione di multifunzionalità descritta dall’Unione Europea e dalla normativa italiana, non solo quando l’azienda ha il cartello di “fattoria didattica”, “fattoria sociale” o “agriturismo”.

Ridurre la multifunzionalità a tre etichette amministrative significa ignorare esattamente il cuore del concetto: la capacità dell’azienda agricola di generare valore economico, ambientale e sociale in modo integrato, soprattutto nelle aree marginali dove nessun altro presidio rimane.

Razze autoctone: funzione economica o servizio pubblico?

La genetica qui non è un dettaglio tecnico. Le razze locali – quelle di cui parlano i manuali di zootecnia della biodiversità e i repertori nazionali – sono il risultato di un lungo adattamento a specifici contesti ecologici e culturali. Cambiare razza, in certi territori, significa cambiare il funzionamento stesso del sistema pascolo–paesaggio.

Un cavallo da tiro rustico, una pecora di montagna, un asino locale:

  • utilizzano in modo efficiente risorse foraggere marginali,
  • hanno comportamenti e caratteristiche fisiologiche che riducono costi sanitari e di gestione,
  • sono portatori di variabilità genetica che può diventare preziosa domani di fronte al cambiamento climatico o a nuove esigenze produttive.

Per questo, quando un’azienda agricola sceglie di continuare ad allevare razze autoctone in aree marginali, sta svolgendo, nei fatti, una funzione di servizio pubblico: conserva un pezzo di patrimonio genetico nazionale, tutela il paesaggio, mantiene attivi itinerari rurali, crea opportunità di turismo responsabile e di educazione ambientale.

La legge 194/2015 riconosce questo ruolo indicando nella Rete della biodiversità e negli agricoltori/allevatori custodi gli attori chiave per evitare l’estinzione delle risorse genetiche.

La PAC, dal canto suo, chiede agli Stati membri di legare sempre di più i pagamenti alla fornitura di beni pubblici, tra cui la biodiversità. (Gazzetta Ufficiale)

Biodiversità nelle aree marginali: il vero volto della multifunzionalità agricola

Perché le aree marginali sono il banco di prova della norma

Le aree interne, i comuni di montagna, le zone dove l’agricoltura non è “competitiva” nel senso classico, sono il banco di prova reale della coerenza tra norme e politiche.

Qui la multifunzionalità non è una scelta di marketing: è l’unico modo per tenere aperta una stalla, giustificare un’ora di trattore in più, dare un senso a un investimento in recinzioni o in fienili.
Ogni funzione aggiuntiva – un progetto scolastico, un accordo con un’area protetta, un patto con il Comune per la manutenzione di sentieri e prati-pascolo – è una tessera che si aggiunge al mosaico di servizi pubblici che l’azienda eroga, spesso senza riconoscimento adeguato.

Sul piano giuridico, però, gli strumenti ci sono già:

  • il riconoscimento della multifunzionalità nel diritto europeo e nelle politiche di sviluppo rurale; (agrinext-project.eu)
  • la definizione ampia di attività connesse nel d.lgs. 228/2001; (FAOLEX)
  • la legge 194/2015 che mette al centro le risorse genetiche locali e i custodi. (Gazzetta Ufficiale)

La coerenza, oggi, si gioca nel modo in cui bandi, misure regionali, regolamenti applicativi interpretano queste norme: se le usano per allargare lo spazio di riconoscimento alle aziende custodi di biodiversità, oppure se riducono tutto ad un elenco chiuso di etichette.


In fondo, parlare di multifunzionalità dell’azienda agricola che alleva razze autoctone in aree marginali significa riconoscere una cosa semplice: <<che quella stalla, quel recinto, quel pascolo sono molto più di un “luogo di produzione”>>.

Sono un pezzo di infrastruttura pubblica diffusa.
Là dove finiscono le strade asfaltate e cominciano le pietraie, il presidio invocato ed auspicato dallo Stato, spesso ha la forma di un cavallo al pascolo, di un gregge che sale in quota, di un asino che accompagna un armento di vacche lungo un tratturo.

Annalisa Parisi – Centro Studi per la Biodiversità PASSIONECAITPR

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