Zootecnia e territorio: il pascolo come presidio di biodiversità
Nell’attuale dibattito sulla sostenibilità, troppo spesso ci si dimentica di un dato essenziale: la biodiversità non si conserva lasciando la natura a se stessa, ma attraverso una gestione attiva, integrata e intelligente del territorio. In particolare, nelle cosiddette Aree Agricole ad Alto Valore Naturalistico (HNV – High Nature Value), il ruolo dell’allevamento estensivo non è solo utile, ma cruciale. Qui, agricoltura e zootecnia non sono in opposizione alla natura, bensì ne rappresentano gli alleati più fedeli.
Architetti e Custodi del paesaggio: gli Allevatori
Si tratta di paesaggi rurali in cui le pratiche tradizionali, come il pascolamento, la transumanza o la fienagione tardiva, modellano ambienti ad altissima ricchezza biologica. Il pascolo degli erbivori domestici contribuisce a mantenere mosaici agro-silvo-pastorali dove convivono insetti impollinatori, uccelli nidificanti, flora spontanea e funghi micorrizici.
In queste zone, abbandonare la presenza attiva dell’allevatore significa perdere biodiversità, non conservarla.
La montagna che resiste: biodiversità e agricoltura
Di contro, il rimboschimento spontaneo, spesso scambiato per “ritorno alla natura”, comporta la perdita di habitat aperti e semi-aperti, fondamentali per numerose specie animali e vegetali.
In Italia, soprattutto nelle fasce montane e pedemontane, l’avanzata del bosco in aree storicamente pastorali sta contribuendo a ridurre non solo la biodiversità, ma anche la sicurezza idrogeologica e la vivibilità dei territori. Una montagna senza uomini, senza animali e senza lavoro è una montagna più fragile e più esposta.

L’allevamento estensivo – quello praticato con risorse genetiche autoctone, adattate all’ambiente e con cicli naturali – è un presidio attivo contro lo spopolamento, l’omologazione ecologica e l’abbandono.
È anche una risposta concreta alla crescente pressione della fauna selvatica: l’assenza di pascoli e presenze umane favorisce l’espansione incontrollata di specie opportuniste (cinghiali, lupi, cervi), con conseguenti conflitti uomo-fauna sempre più difficili da gestire.
Allevatori al centro
In questo contesto, il ruolo dell’allevatore va ripensato in chiave sistemica.
L’Allevatore custode diventa gestore di paesaggio, attore primario nella conservazione di razze locali e figura fondamentale nella tutela degli ecosistemi. Per questo è fondamentale che le politiche agricole riconoscano e valorizzino il valore multifunzionale della zootecnia estensiva, sostenendo i pascoli permanenti, le pratiche pastorali e i sistemi produttivi tradizionali legati al territorio.
Le razze autoctone, per tradizione o per adattamento non sono soltanto espressione culturale: sono strumenti biologici di adattamento a condizioni ambientali difficili, vere “tecnologie genetiche” sostenibili che si sono evolute con i territori. Sostenere la loro conservazione attiva – cioè legata a produzioni economiche reali e integrate nei territori – significa non solo salvaguardare la diversità genetica, ma investire in modelli produttivi resilienti, a basso impatto e ad alta efficienza ecologica.

È tempo, allora, che la narrazione cambi: la natura, da sola, non basta. La vera biodiversità è quella co-costruita con l’uomo, quella che vive nei prati stabili, nei pascoli montani, nei muretti a secco e nelle mandrie che ancora percorrono i tratturi. Per proteggerla, servono meno slogan e più politiche lungimiranti.
E soprattutto, serve che allevatori, tecnici e ricercatori facciano squadra per rimettere il valore agro-zootecnico al centro della visione ambientale.
L’Italia delle aree marginali guida la rinascita delle aree agricole ad alto valore naturalistico
In un’Europa che finalmente torna a parlare di agricoltura in chiave ambientale, l’Italia si propone come paese guida. Con oltre il 41% del territorio costituito da aree montane svantaggiata, il nostro Paese si conferma custode privilegiato di quei paesaggi agricoli complessi, spesso marginalizzati in passato, ma oggi riconosciuti come strategici per la sostenibilità del futuro.
Per anni considerate obsolete o non competitive, le aree agricole ad alto valore naturalistico (AVN) stanno vivendo un inatteso ritorno d’interesse, alimentato anche dall’evoluzione della Politica Agricola Comune (PAC), che ha iniziato a integrare obiettivi ambientali in modo più strutturale. Con tutte le contraddizioni del caso, le istituzioni internazionali sembrano aver finalmente preso atto di una verità troppo a lungo ignorata: la tutela della biodiversità e degli ecosistemi non è un lusso, ma una condizione necessaria per garantire cibo sano e accessibile in modo equo.

Del resto, il sistema agricolo stesso non può più essere considerato in modo avulso dalla dimensione ecologica. Un’agricoltura che si allontana dalle logiche degli ecosistemi è destinata a perdere efficienza, fertilità e capacità di resilienza. Semplificare eccessivamente i cicli naturali, isolare le colture, spingere le produzioni all’estremo significa compromettere le funzioni stesse dell’agroecosistema. È in questa consapevolezza che le AVN tornano a essere centrali: ambienti agricoli in cui si coltiva e si alleva rispettando una certa naturalità del contesto, valorizzando la presenza di siepi, pascoli, prati stabili, zone umide e boschi in equilibrio.
Si tratta, è vero, di modelli produttivi che non possono sfamare da soli l’intero pianeta. Ma proprio per questo possono e devono diventare laboratori d’innovazione sostenibile, ispirando pratiche agricole più rispettose delle risorse naturali, applicabili anche su scala più ampia. Una rivoluzione silenziosa ma urgente, che passa anche attraverso il riconoscimento del ruolo degli agricoltori e allevatori custodi: non solo produttori, ma attori della gestione attiva del territorio.
In definitiva, le aree marginali non sono più un’archeologia rurale, ma un punto di riferimento europeo per un’agricoltura che vuole tornare a essere parte della soluzione e non del problema.
In termini di storytelling, sarebbe auspicabile che il futuro delle nuove generazione ripartisse proprio dalle nostre montagne.
Simone Valeri, autore di un bell’articolo sul tema fa questa considerazione: “Lascerebbe ben sperare che le recenti politiche comunitarie e internazionali sembrino propendere ora verso sistemi agro-alimentari che includano l’ambiente naturale. Seppur in una prospettiva ancora zoppicante e insufficiente, la salvaguardia delle AVN è da considerarsi quindi prioritaria al fine di conservare la diversità bioculturale senza intaccare la produttività agricola, soprattutto alla luce del fatto che gli ettari da esse occupate sono tutt’altro che trascurabili. Solo in Europa se ne stimano oltre 74 milioni. Laddove queste non esistono è possibile crearle o quantomeno trarvi ispirazione. Che lo si voglia o meno, la via della coesistenza uomo-natura potrebbe essere l’unica possibile.”
Annalisa Parisi – Centro Studi per la Biodiversità PASSIONECAITPR
